Una valutazione sulla politica della nuova amministrazione statunitense in relazione allo scacchiere mediorientale deve basarsi più sulle intenzioni che su quanto ad oggi realizzato. Al momento, infatti, non vi sono fatti concreti che danno indicazioni di un cambio di rotta significativo rispetto all’era Trump. D’altra parte bisognerà attendere ancora qualche mese per testare le reali intenzioni della nuova amministrazione soprattutto in un quadro, quello mediorientale, complicato di per sé ma dove altri attori, vedi la “santa alleanza” sciita tra il regime teocratico iraniano, Asssad e Putin, si è saldamente insediato nelle aree più sensibili mediorientali. Tuttavia vi sono segnali, derivanti dai primi provvedimenti di politica interna ed estera, che possono ragionevolmente disegnare le linee guida di un nuovo e diverso posizionamento degli USA nel quadro geopolitico globale ed in particolare per l’area mediorientale.
Per quanto riguarda la politica interna l’elemento di novità sostanziale è la decisione di Biden di immettere nel mercato USA una cifra decisamente importante, quasi seimila miliardi di dollari. Un “Recovery Fund” a stelle e strisce che potrebbe riportare gli USA al centro dell’economia globale. La consistenza straordinaria dell’intervento, al cui confronto “poca roba” sono le dimensioni del Recovery Fund Europeo (750mld di Euro), di fatto è una sfida ai due maggiori competitori internazionali – la Cina e L’Europa.
Il tentativo di rilanciare l’economia ha un coerente riflesso anche sul piano internazionale. Centrale nella politica di Biden è infatti il ritorno degli USA nel consesso internazionale, un ritorno con le credenziali da protagonista, da paese che si rimette in moto, così come dovrebbero essere gli effetti economici del nuovo New Deal americano.
Sul piano internazionale è ormai chiaro il tentativo di riportare gli USA nei maggiori organismi internazionali. In questa prospettiva vanno letti, a titolo esemplificativo e non esaustivo, le intenzioni di una ripresa dei negoziati sul nucleare iraniano, il mettere al centro della politica estera l’Alleanza Atlantica (Biden il 14 giugno arriverà a Bruxelles, primo viaggio all’estero, per partecipare al vertice tra i leader della Nato), il rendere noto alla Germania che non è gradita la scelta di rifornirsi d’energia tramite il condotto Nord Stream 2 (di fatto una autostrada preferenziale energetica tra Putin e la Germania), l’ammonimento al “ragazzo prodigio” saudita Bin Salman che non si può impunemente far sparire gli oppositori, il ripensamento sulla questione del clima (firmando il rientro degli USA negli accordi di Parigi) e, per ultimo, gli ammonimenti alla Russia sulla questione Ucraina.
In sintesi un “First America” che si lascia alle spalle l’isolazionismo di Trump per rimettere al primo posto nel panorama mondiale, sia politico sia economica, gli USA. La politica estera del Presidente Biden sarà improntata sul concetto di Smart Power, con l’obiettivo di rafforzare la posizione degli Stati Uniti e dei i suoi alleati nei confronti di una Cina tecnologicamente all’avanguardia e sempre più minacciosa.
La politica estera sarà caratterizzata, sulla scorta dei primi segnali, dall’abbandono della politica isolazionista ed un duplice atteggiamento: rassicurare gli alleati e nel contempo mandare segnali veloci e chiari che non bisogna sfidare oltre misura gli interessi americani. In conclusione la politica estera degli USA sarà contraddistinta dalle 3 D di Domestic, Deterrence e Democracy.
Alle riforme in ambito domestico, che mirano a riportare l’economia americana al centro del mondo o quanto meno in una posizione di forza nella competizione con la Cina, si accompagnerà la Deterrenza. Non sarà la riedizione di quella dei missili ma sarà declinata su un nuovo piano, quello delle nuove tecnologie che possano proteggere le comunicazioni ed il settore informatico americano dai tentativi di penetrazione cinesi e russi. I missili e le atomiche stanno lasciando il passo ai cavi di internet. La democrazia ed il “rispetto dei diritti umani” saranno il contenitore ideologico ed il mezzo mediatico per riproporre l’America al primo posto nel palcoscenico della comunicazione. In tale contesto come si inserisce il Medioriente? Quali sono, se ve ne sono, gli elementi di novità?
A pochi mesi dall’entrata in ruolo della nuova amministrazione, più che cambiamenti concreti, come detto all’inizio di questo articolo, dobbiamo registrare dei segnali e dei primi passi che possono delineare un strategia futura. Tratteggiamo allora sinteticamente quelle che possono al momento essere le linee guida degli USA nel risiko mediorientale.
La tradizionale politica americana d’impegno nell’area è stata modificata da due fatti. Primo, fatto non nuovo, dalla shale revolution, che ha svincolato la dipendenza energetica USA dal Medio Oriente, provocandone un parziale disimpegno strategico. La Shale Revolution ha reso gli USA il leader mondiale nell’O&G e, nonostante le dichiarazione sull’economia verde, non è realistico ipotizzare che venga abbandonato, quanto meno nel breve termine, un asset strategico, ad oggi di vitale importanza, come quello dell’industria fossile. Secondo, l’intenzione di Biden di ripristinare la partecipazione USA al Patto Nucleare con l’Iran annullando l’eccessivo allineamento di Trump con l’Arabia Saudita. La partita con l’Iran non è priva di ostacoli e gli esiti non si vedranno a breve.
La vera novità nella politica statunitense in medioriente è l’intenzione di tornare nell’ambito del trattato Joint Comprenhensive Plan of Action, siglato nel luglio 2015, per assicurare lo sviluppo esclusivamente civile del nucleare iraniano. Tale intenzione sta incontrando difficoltà, soprattutto nel Congresso e nel Senato degli USA, dove forte è la richiesta che la fine delle sanzioni a Teheran ed il rientro degli USA nel Trattato siano accompagnati da ulteriori misure che proteggano il Golfo dall’aggressività iraniana, sostenuta dalle milizie sciite irachene, siriane e libanesi.
Biden, al fine di riprendere contatto con la dirigenza iraniana, sta al momento giocando due carte per la ricerca di un delicato equilibrio. La prima è stata quella del “mostrare i muscoli” a Teheran. Nello scorso febbraio, infatti, si è registrato il primo atto attacco aereo della presidenza Biden. I caccia americani hanno colpito una postazione di frontiera controllata dalle milizie irachene filo-iraniane Kataib Hezbollah e Kataib Sayyid al-Shuhada, uccidendo 22 miliziani. Entrambe le formazioni sono parte delle Pmu, le unità di mobilitazione popolare, gruppi armati sciiti iracheni legati a Teheran diventati noti per il ruolo giocato sia nell’Iraq occidentale sia nella stessa Siria nella sconfitta del progetto statale dell’ISIS.
L’operazione è stata una risposta al lancio di missili contro postazioni americane avvenuti il 15 febbraio contro la base aerea Balad a Erbil, capitale del Kurdistan iracheno. L’attacco non è avvenuto in Iraq ma in territorio siriano: aspetto non di poco conto e che contiene un messaggio chiaro, in altre parole Damasco e le milizie sciite non sono soggetti con i quali trattare – un segnale concreto agli oltranzisti di Teheran.
Insomma Teheran è il vero destinatario del raid militare e le bombe americane contengono un preciso segnale: gli USA sono disposti a riaprire il dialogo sul nucleare e rientrare negli accordi internazionali a patto che si “raffreddi” l’attivismo delle milizie sciite nel contesto mediorientale. Pare, almeno in questa prima fase, che l’Iran abbia compreso il messaggio: significativa è che non vi è stata nessuna reazione al raid americano, né da parte dell’Iran né tantomeno delle sue milizie sparse tra Iraq, Siria, Libano e territori palestinesi.
L’altra carta di Biden è calibrare i rapporti con i Sauditi, “raffreddando” gli entusiasmi che avevano contraddistinto l’era Trump. D’impatto mediatico è stata la campagna del rispetto dei diritti umani ponendo sul tappeto la vicenda del giornalista Khashoggi. Inoltre vi è stato un segnale ancora più concreto a Bin Salman: una contrazione della fornitura di armi – indicativa è stata la mancata consegna da parte degli USA all’Arabia Saudita tra un lotto di 3mila bombe GBU-39 Sdb.
Se tali sono, al momento le linee guida della politica estera statunitense nell’area mediorientale, si pone un immediato problema. Il tentativo di riavvicinamento tra USA ed Iran mette di fatto in discussione gli accordi di Abramo (una serie di trattati che sta portando ad una normalizzazione delle relazioni fra Israele, Bahrain e Emirati Arabi Uniti ai quali si è aggiunto il Sudan). Accordi fondati dal punto di vista geopolitico sul tentativo di creare un fronte comune anti iraniano – non sarà facile far digerire ai tradizionali alleati regionali, sottoscrittori del patto di Abramo, una retromarcia nei confronti dell’Iran.
Per quanto riguarda i futuri rapporti Israele e la questione palestinese viene rimarcato da parte degli USA l’appoggio allo storico alleato israeliano e, infatti, non verrà ridiscussa il trasferimento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme. Verranno invece ripresi i finanziamenti ai palestinesi tramite l’Organizzazione delle Nazioni Unite ma, in sostanza, non muterà di molto l’orientamento nella questione palestinese rispetto all’amministrazione precedente.
D’altra parte la scelta di Kamala Harris quale Vicepresidente, è un segnale molto chiaro e forte nei confronti dei palestinesi: Kamala Harris, è considerata un “falco” sulla questione palestinese. Riportiamo le dichiarazione che la stessa rilasciò a JewishInsider il 15 novembre 2019: “L’ultima raffica di attacchi missilistici da Gaza contro israeliani innocenti non può essere tollerata. Israele ha il diritto di difendersi da questi orribili attacchi. Mi unisco agli altri nell’esortare contro un’ulteriore escalation”.
Kamal Harris, il 3 giugno del 2019, intervenne al Comitato ebraico americano, rilasciando le seguenti dichiarazioni: “Sostengo fortemente l’assistenza alla sicurezza dell’America a Israele e mi impegno a rafforzare il rapporto americano di sicurezza e difesa israeliana. Credo che quando una qualsiasi organizzazione delegittima Israele, dobbiamo alzarci in piedi e parlare apertamente contro di essa. Israele deve essere trattato allo stesso modo, ed è per questo che la prima risoluzione che ho co-sponsorizzato come senatore degli Stati Uniti è stata quella di combattere i pregiudizi anti-israeliani alle Nazioni Unite e di affermare e riaffermare che gli Stati Uniti cercano una soluzione giusta, sicura e sostenibile per due Stati”.
Probabilmente, come citava Kamala Harris verrà riproposta da parte dell’amministrazione americana la soluzione dei “Due Stati”. In sintesi Biden pur esprimendo riserve nei confronti di iniziative estremamente controverse come il piano di annettere parti sostanziali dei territori palestinesi occupati, al momento confermerà lo storico impegno americano ad Israele.
Per completare il panorama dobbiamo sottolineare come gli USA dovranno tenere a freno le ambizioni Turche e Russe sulla Siria e sul mediterraneo Orientale. Le recenti scoperti energetiche nell’ovest del mediterraneo hanno amplificato l’importanza non solo economica ma anche geopolitica dell’area: non sarà facile per Biden rientrare, quanto meno da protagonista, in un gioco militare e diplomatico che nell’era Trump è stata lasciato alle iniziative Turche e Russe e loro relativi alleati territoriali.
Per ultimo concludiamo queste osservazioni prendendo atto che sarà portato a compimento, da parte degli USA, ovvero il ritiro dall’Afghanistan. Biden, ha annunciato, il 13 aprile, il ritiro delle truppe statunitensi entro l’11 settembre, ventesimo anniversario delle Torri gemelle. La decisione è del tutto prevedibile ed in linea rispetto a quanto più volte affermato in passato dall’attuale Presidente, considerati gli alti costi economici di un conflitto che sotto il profilo strettamente militare non ha dato i risultati sperati.
Daniele Ratti